Piccoli Fratelli Jesus Caritas, febbraio 2021

È quando siamo deboli che siamo forti

Carissimi, fratel Paolo Maria mi chiede di rivolgervi anche da parte sua il consueto saluto, perché lui ancora non è in piena forma dopo qualche settimana di malattia.

Per chi non fosse a conoscenza, subito dopo le feste natalizie il Coronavirus è arrivato all’Abbazia di Sassovivo e i nostri cinque fratelli si sono ammalati, compreso fratel Gabriele, che era già rientrato a Roma dopo aver trascorso le feste in fraternità, e anche un paio di amici che frequentano più assiduamente l’abbazia. Fratel Leonardo è stato colpito duramente ed è ricoverato all’ospedale di Foligno, tuttora si trova in terapia intensiva e le sue condizioni sono delicate. La nostra attenzione si era concentrata subito su fratel Gian Carlo perché pensavamo fosse il più vulnerabile, ma grazie a Dio lui e gli altri fratelli si stanno riprendendo sempre più. Fratel Giovanni Marco era arrivato da Nazaret per trascorrere il Natale a Sassovivo e anche lui è rimasto contagiato; la sua presenza, paradossalmente, è stata provvidenziale perché ha potuto assistere gli altri fratelli, altrimenti le cose potevano andare peggio.

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Picolli Fratelli Jesus Caritas. Gennaio 2021

Vivere come una mano aperta

Carissimi, desidero augurarvi un buon anno con le parole conclusive del libro dell’Apocalisse: “La grazia del Signore Gesù sia con tutti”, (22,21).

Il tempo è dono di Dio ed ha il suo senso se è vissuto nella grazia, nell’amore di Gesù.

Abitare la fiducia nel Signore è il modo migliore per iniziare ogni nuovo giorno nella coscienza di poter respirare la bellezza dell’esistenza soltanto nella grazia di Dio, sentendosi accolti, amati, perdonati.

Affidare la propria quotidianità a Gesù è accettarlo alla guida dell’automobile della nostra vita. Con Lui il viaggio procede sicuro, le difficoltà affrontate e dissolte, gli ostacoli superati fin quando alla prima sosta, alla pompa di benzina o all’autogrill, risalendo sul veicolo siamo noi a riprendere in mano il volante e le strade che intraprendiamo molto spesso sono quelle sbagliate, se non addirittura senza uscita.

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Testo 5. Il dialogo nell’itinerario spirituale di fratel Charles. Jean-François BERJONNEAU

Jean-Francois BERJONNEAU, France

Fr. Charles visse sessant’anni prima del Concilio Vaticano II.

La nozione di dialogo interreligioso come lo intendiamo oggi nella Chiesa gli era totalmente estranea. Pur essendo stato, credo, un precursore delle aperture del Concilio sulla dimensione universale della missione della Chiesa, il processo di dialogo tra credenti cristiani e musulmani in quanto tali non rientrava nelle sue categorie. Egli è vissuto con la teologia del suo tempo con la preoccupazione di raggiungere i musulmani per salvare “queste anime ignoranti” facendo conoscere loro il Cristo.

Inoltre, ha svolo il suo ministero in un contesto socio-politico preciso. La Francia, nel suo tempo, estendeva il suo impero coloniale su una parte dell’Africa. Molti pensavano, in quel momento, che essa stesse facendo opera di civilizzazione e che potesse fornire l’istruzione necessaria per liberare i popoli colonizzati dalla miseria e dall’ignoranza. Fratel Charles ha aderito a questa visione. Così egli non ha visto nell’Islam del suo tempo una religione che avesse una sua consistenza, una sua storia, le sue diverse correnti con alcune delle quali i cristiani potevano entrare in dialogo. Sebbene l’Islam avesse esercitato su di lui, in un particolare momento della sua vita, un certo fascino e che l’incontro con i musulmani abbia costituito per lui una tappa non trascurabile nel cammino della sua conversione, egli sarebbe stato ben lontano dal sottoscrivere questa visione conciliare dell’Islam secondo la quale “La Chiesa guarda con stima i musulmani che adorano l’unico Dio, vivente, misericordioso e onnipotente, creatore del cielo e della terra, che ha parlato con gli uomini …” (Nostra Aetate, 3). Non rientrava quindi nella problematica teologica del Concilio Vaticano II che riconosce nelle religioni non cristiane la presenza di “semi del Verbo” che possono costituire una base per entrare in dialogo con i credenti di un’altra religione.

Tuttavia, mi sembra che possiamo comunque considerare Fratel Charles come un precursore del dialogo. Perché ha stabilito con le popolazioni musulmane che ha incontrato, in particolare con i Tuareg, un “dialogo della vita” che è stato poi presentato dall’enciclica “Ecclesiam Suam” di Papa Paolo VI nel 1964 come la base fondamentale per qualsiasi dialogo: “Non si salva il mondo dal di fuori, occorre, come il Verbo di Dio che si è fatto uomo, immedesimarsi, in certa misura, nelle forme di vita di coloro a cui si vuole portare il messaggio di Cristo …. occorre condividere il costume comune, purché umano ed onesto, quello dei più piccoli specialmente, se si vuole essere ascoltati e compresi. Bisogna, ancor prima di parlare, ascoltare la voce, anzi il cuore dell’uomo… Bisogna farsi fratelli degli uomini … Il clima del dialogo è l’amicizia” (n.90). Così, fratel Charles, dedicando tutte le sue energie e gran parte del suo tempo all’apprendimento della lingua dei Tuareg di cui condivideva la vita, intrattenendo conversazioni molto semplici sulle realtà della loro vita quotidiana, aprendosi alla loro. poesia e quindi cercando di capire il genio di questo popolo, seppe creare, attraverso il dialogo con i suoi ospiti, un clima di fiducia al punto da diventare per molti “un amico”. Ha così mostrato che la missione della Chiesa è anche quella di suscitare dei fratelli, nel rispetto delle differenze di cultura o di religione, come ha successivamente fatto la Chiesa in molti paesi del pianeta, forte delle aperture del Concilio Vaticano II. Possiamo quindi riconoscere che per noi, sacerdoti della Fraternità sacerdotale Jesus Caritas, quali siamo, fratel Charles ha avviato una spiritualità del dialogo che può ancora ispirarci negli incontri che abbiamo non solo con i musulmani ma anche con tutti coloro che non condividono la nostra fede. Così il cammino del dialogo da lui inaugurato con i Tuareg si è sviluppato in diverse figure fondamentali:

Egli ha saputo andare oltre se stesso per andare ad immergersi nel paese dell’altro. Così ha realizzato quello che Papa Francesco chiama “una Chiesa in uscita”. Egli ha desiderato di farsi accogliere da questo popolo e divenire, nella misura del possibile, “uno di loro”. E ha fatto dell’apprendimento della loro lingua un’opera mistica perché essa si poneva per lui nella logica dell’incarnazione del Cristo in quella umanità che egli è venuto a salvare.

Anche se il suo più grande desiderio era che i musulmani si convertissero alla fede cristiana , non ha mai esercitato alcuna pressione per raggiungere il suo scopo. Ha sempre rispettato la loro libertà. Nel 1908, riconobbe che non sarebbe mai arrivato ad ottenere alcuna conversione e concluse che certamente questa era la volontà di Dio. Ma è rimasto in mezzo al popolo tuareg in nome dell’alleanza che aveva stretto con esso, semplicemente per avanzare sulla via della fratellanza con questo popolo. Il suo obiettivo: diventare l’amico dell’altro. In una lettera indirizzata a un corrispondente, ha così caratterizzato la modalità di relazione che voleva adottare con i musulmani che lo circondavano: “Prima di tutto, preparare il terreno in silenzio attraverso la gentilezza, il contatto intimo, il buon esempio; amarli dal profondo del cuore, farsi stimare e amare da loro. In questo modo, far cadere i pregiudizi, ottenere fiducia, acquisire autorità – questo richiede tempo – per poi parlare in particolare ai più disposti, con molta cautela, a poco a poco, in modo vario, dando a ciascuno secondo ciò che può ricevere”. Non potendo proclamare esplicitamente il Vangelo, ha voluto personalmente diventare presenza di Vangelo. Questo è ciò che intendeva quando diceva di voler “gridare il Vangelo non con le parole ma con tutta la sua vita”. Ha saputo fare suo lo sguardo di Dio sui musulmani che ha incontrato. Non ha visto in loro, prima di tutto, degli “infedeli” o dei “miscredenti”, ma, nel suo desiderio di diventare un fratello universale, li ha considerati come “fratelli amati”, dei figli di Dio, anime redente dal sangue di Gesù, anime amate da Gesù”.

Ha manifestato il volto di una Chiesa diaconale. Non si è semplicemente accontentato di vivere con loro ma ha anche contribuito, nella misura delle sue possibilità, al miglioramento delle loro condizioni di vita e allo sviluppo del loro paese. Ha lottato contro la schiavitù, ha combattuto le malattie, ha introdotto in questo paese molto povero la possibilità di accedere a cure mediche, nuove tecniche agricole e mezzi di comunicazione.
Ogni volta che ha potuto, ha aperto un dialogo spirituale con i musulmani. Certamente non aderiva affatto alla dottrina dell’Islam. Ma ha riconosciuto un punto in comune con la fede cristiana: il duplice comandamento di amare Dio con tutto il cuore e di amare il prossimo come se stesso. Su questa base ha sviluppato numerosi dialoghi con i suoi amici musulmani, mostrando loro in varie circostanze come questo duplice comandamento poteva innervare le loro relazioni quotidiane.

Infine, e questo non è un elemento secondario del dialogo, ha fatto del mistero pasquale la via maestra del dialogo. Perché, contemplando costantemente la vita di Cristo a Nazareth, come lui ha intrapreso la strada dell’umiltà, della povertà, dell’ascolto e del morire a se stesso nell’incontro con l’altro. Ha manifestato con tutta la sua vita che “non c’è amore più grande che dare la vita per coloro che ami”.

Presentandosi come “un pioniere”, ci ha mostrato che il dialogo della vita è parte integrante della missione della Chiesa.

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Testo 4. Il nostro modo di evangelizzare

Fernando Tapia, Cile

Come sacerdoti diocesani, condividiamo con tutta la Chiesa l’unica missione che le è propria: evangelizzare. Papa Francesco ci ha indicato delle linee guida molto chiare per farlo nella sua Esortazione Apostolica Evangelii gaudium. Facciamo nostri questi orientamenti e cerchiamo di ispirarci ad essi per la nostra azione di evangelizzazione nelle nostre parrocchie, comunità, centri di formazione cristiana, centri di assistenza per i più poveri, ecc.

Tuttavia, è bene porci la questione se noi, come sacerdoti della Fraternità IESUS CARITAS, possiamo evidenziare alcuni accenti particolari nati dal carisma di Charles e dalla nostra spiritualità. Noi pensiamo di sì, e qui ne sottolineiamo alcuni.

1. IL MISTERO DELL’INCARNAZIONE

Il nostro modo di evangelizzare è segnato innanzitutto dal mistero dell’Incarnazione, mistero che ha affascinato fratel Charles e che è alla radice della sua spiritualità:

“L’incarnazione ha la sua fonte nella bontà di Dio… Ma una cosa appare innanzi tutto, così meravigliosa, così scintillante, così stupefacente, che brilla come un segno sfolgorante : è l’umiltà infinita che un tale mistero contiene: Dio, l’essere, l’infinito, il Creatore onnipotente, immenso, il sovrano padrone di tutto, che si fa uomo, che si unisce a un’anima e a un corpo umani e appare sulla terra come un uomo, e l’ultimo degli uomini ” (La vita nascosta, p. 47-48)

L’incarnazione avviene sempre in un particolare tempo, luogo e cultura. Fratel Charles si è immerso in un grande lavoro di conoscenza della cultura dei Tuareg, della loro lingua, dei loro costumi, della loro poesia, ecc. Vorremmo sempre tener conto del contesto storico, delle caratteristiche del tempo e della cultura in cui evangelizziamo, perché siamo convinti che Dio prolunghi la sua incarnazione in ogni epoca e che Cristo risorto continui a parlarci attraverso i segni dei tempi, per invitarci a costruire il suo Regno di Vita. Considerando il fatto che Cristo entra nel mondo dalla “porta dei poveri”, come ha detto Mons. Enrique Alvear, anche noi vorremmo entrare attraverso questa porta per compiere la nostra opera di evangelizzazione e, da lì, proclamare il Vangelo a tutti.

2. LE PERIFERIE.

In uno spirito di disponibilità verso i nostri vescovi, noi preferiremmo esercitare il ministero, prioritariamente, nelle realtà più abbandonate e più lontane dalla Chiesa. Periferie geografiche o esistenziali, come dice Papa Francesco. Sono luoghi di frontiera: popolazioni emarginate, zone remote, campi profughi, migranti, tossicodipendenti, privati ​​della libertà, esclusi in generale. Questa prossimità ci permetterà di ascoltare e mescolarci al grido dei poveri, a volte molto flebile ma a volte molto forte. E usando mezzi poveri, fondamentalmente attraverso la nostra presenza amichevole e misericordiosa.

Fratel Charles ci dice:

“Quanto a me, cerco sempre l’ultimo degli ultimi posti, per essere piccolo quanto il mio Maestro, per essere con lui, per camminare dietro a lui, passo a passo da fedele domestico, fedele discepolo, e poiché nella sua bontà infinita e incomprensibile si degna permettermi di parlare così, da fedele fratello, da fedele sposa… ”(La vita nascosta, p.50).

“Questo divino banchetto, di cui io diventavo il ministro, dovevo presentarlo non ai congiunti, ai vicini ricchi, ma agli zoppi, ai ciechi, alle anime più abbandonate alle quali mancano sacerdoti… Ho sollecitato e ottenuto dal prefetto apostolico del Sahara il permesso di stabilirmi nel Sahara algerino”. (Lettera a Mons. Caron, 8 aprile 1905).

Se veniamo mandati in posti migliori, vorremmo operare per una maggiore sensibilizzazione sociale ed essere ponti tra i ricchi e le realtà dei poveri.
Siamo arrivati ​​come amici e fratelli dei poveri. Scopriamo Dio già presente nelle loro grida e nelle loro aspirazioni. A nostra volta lasciamo che i poveri ci evangelizzino e arricchiscano il nostro ministero.

3. TESTIMONIANZA PERSONALE

Ovunque, ma soprattutto nei luoghi di emarginazione, vogliamo dare priorità all’evangelizzazione attraverso una testimonianza di vita piuttosto che attraverso i discorsi. Testimonianza segnata da vicinanza, semplicità, accoglienza, gentilezza, interesse per ciò che accade agli altri, servizio concreto, gioia interiore. Fratel Charles scriveva:

“Vuoi sapere cosa posso fare per i nativi. Non è possibile parlare loro direttamente di Nostro Signore. Li farebbe scappare. Bisogna creare un clima di fiducia, farseli amici, render loro dei piccoli servizi, dare loro dei buoni consigli, stringere amicizia con loro, esortarli con discrezione a seguire la religione naturale, mostrare loro che i cristiani li amano”. (Lettera a Madame de Bondy, 16 dicembre 1905).

Già nel suo ritiro del novembre 1897 aveva formulato il suo modo di evangelizzare con questa frase, posta sulla bocca di Gesù: “Adempite la vostra vocazione: quella di annunciare il Vangelo dai tetti, non con le parole, ma con la vostra vita “.

Questo non significa che mettiamo da parte il ministero della Parola. Sappiamo che è parte essenziale della nostra missione quella di risvegliare e nutrire la fede: “La fede viene dall’ascolto e l’ascolto riguarda la parola di Cristo” (Rm 10, 17). Lo dice chiaramente il Concilio Vaticano II nel decreto su Il ministero e la vita sacerdotale: “In virtù della parola salvatrice, la fede si accende nei cuori dei non credenti e si nutre nei cuori dei credenti, e con la fede ha inizio e cresce la comunità dei credenti”.

4. LA NOSTRA SCELTA DELLA FRATERNITÀ

Con la nostra scelta per la Fraternità, privilegiamo il lavoro di gruppo con altri sacerdoti, siano essi o meno della nostra Fraternità, con religiosi, diaconi e laici. Vogliamo essere fratelli piuttosto che padroni, professori o autorità religiose, come dice il Concilio: “I sacerdoti vivono in mezzo agli altri uomini come fratelli in mezzo ai fratelli”. Fratel Charles in questo senso ha anticipato il Concilio quando ricerca e promuove il lavoro con i laici:

“Accanto ai sacerdoti, occorrono delle Priscilla e degli Aquila, per vedere quello che il sacerdote non vede, per penetrare dove egli non può entrare, per avvicinare chi fugge da lui o gli è ostile per partito preso, per evangelizzare mediante un contatto benefico, con una carità che si espande su tutti, un affetto sempre pronto a donarsi, un buon esempio che attragga”. (Lettera a J. Hours, 3 maggio 1912).

Per lo stesso motivo, vogliamo investire tempo nella formazione dei laici, al loro accompagnamento spirituale e sostenere la formazione di comunità fraterne, rispettando il ritmo di ogni persona.

Crediamo nella fratellanza come stile di vita, una fratellanza universale, caratterizzata da amicizia, reciprocità e dialogo.

Allo stesso modo, la nostra scelta di fraternità ci porta a promuovere la partecipazione dei laici nella conduzione pastorale delle nostre parrocchie, evitando ogni forma di autoritarismo e clericalismo da parte nostra e ogni forma di passività da parte dei laici. L’esistenza dei consigli pastorali, dei consigli per gli affari economici, di équipe per animare le diverse realtà pastorali, di assemblee parrocchiali, di programmazione pastorale svolta insieme, ecc. dovrebbe essere il segno distintivo delle parrocchie o di altre strutture pastorali affidate alla nostra cura.

5. VITA SPIRITUALE ED EUCARISTIA

Questo modo di evangelizzare presuppone per ciascuno di noi una vita spirituale molto profonda che ci porti a contemplare Gesù nei Vangeli per essere configurati sempre più a Lui, grazie all’azione dello Spirito Santo in noi. Entreremo, così, nella dinamica della “kenosis”, dell’abbandono, della donazione totale, propria del mistero dell’Incarnazione, lasciando molte cose per Lui e per la fedeltà al Vangelo: pregiudizi, beni materiali, prestigio, ricerca del potere, sicurezza, ecc. Tutto questo ci darà la libertà interiore per trovare nuove strade e nuovi spazi per la missione evangelizzatrice della Chiesa, cercando sempre la volontà del Padre, con infinita fiducia.

Il nostro dinamismo missionario, soprattutto per raggiungere e rimanere nei luoghi più difficili, è sostenuto dalla celebrazione dell’Eucaristia, dall’adorazione quotidiana e dagli altri mezzi per la crescita spirituale propri della nostra Fraternità. Ci aiutano a prendere coscienza dell’amore infinito di Dio per noi, della sua fedeltà e della sua misericordia e ci danno energia e creatività nella nostra missione.

L’Eucaristia deve diventare per noi uno stile di vita, caratterizzato dalla condivisione del pane, delle storie personali e della parola, anche con persone di altre tradizioni religiose.
Un’esperienza spirituale simile deve essere promossa tra i laici se vogliamo accompagnare le nostre parrocchie verso la dimensione missionaria desiderata da Papa Francesco: una Chiesa in cammino che, senza paura di essere ferita o sporcata dal fango della strada, va alla ricerca di chi è lontano e scartato dalla società.

L’Eucaristia, inoltre, ci fa sentire partecipi di un corpo ecclesiale sempre più vasto. Vogliamo crescere nella consapevolezza che l’evangelizzazione è una missione condivisa con tutta la Chiesa diocesana e universale. Come sacerdoti diocesani, vogliamo essere i primi a sentirci parte di un presbiterio, con a capo il suo Vescovo, sostenendo l’elaborazione e l’attuazione di progetti diocesani ai quali possiamo contribuire con i nostri carismi e sensibilità pastorali.

PER LA RIFLESSIONE E LA PREGHIERA PERSONALE.

  1. Aggiungereste qualche punto ulteriore a questo schema?
  2. La mia struttura pastorale (parrocchia, centro di formazione, ecc.) si sta evolvendo in questa direzione?
  3. Quali caratteristiche deve avere il nostro personale stile di vita per essere coerente con questo modo di evangelizzare?

PDF: Testo 4 – Il nostro modo di evangelizzare – IT